© Mauro Maugliani. all rights reserved
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FRA
Trialogo
Seguirono credo svariati conciliaboli nei giorni a venire. Il primo e il più entusiasta, ricordo, fu Mauro Maugliani: «Io odio la pittura», mi disse a un certo punto, perentorio. Spiegando poi: «Per me iniziare a dipingere è la parte finale e meno interessante del mio lavoro. Il mio lavoro comincia molto prima, e sta tutto o quasi nel pensiero dell'opera, nelle emozioni che precedono, nel progetto, nell'incontro con il soggetto che accende la mia fantasia, il mio immaginario».
Ero certo che in qualche modo dicesse il vero nonostante la bravura addirittura strabiliante, muscolare, del suo esser pittore potesse far apparire quelle dichiarazioni paradossali, perfino assurde. La pittura per lui veniva dopo, alla fine di un percorso, mezzo perfino detestabile. Conoscevo anche la fascinazione, l'attrazione estetica di Mauro per soggetti eccentrici, fisicamente borderline, esseri oltre un qualche «limite», al di là o al di qua, esseri sul crinale dei canoni estetici classici. E apprezzavo quella sua capacità di rintracciare la bellezza là dove la manualistica di sempre l'avrebbe bandita (nel suo studio una mattina avevo avuto modo di ammirare una serie recente di suoi dipinti sul tema della vecchiaia, nudi integrali di donne e uomini di terza età, con i segni fisici del transeunte ben evidenti e non liricamente trasfigurati).
Fui dunque abbastanza sicuro che Mauro avrebbe accettato quando gli proposi, per le sue tre opere, un tema/soggetto piuttosto insolito per non dire folle, almeno per l'estetica contemporanea (da Philippe de Champaigne a Velázquez, molti infatti gli autori del passato ad averlo affrontato): «Credo – gli dissi – che dovresti occuparti di suore, lo vedo un tema consono alla tua natura d'artista, le suore sono esseri misteriosi, quasi nessuno ne parla, nessuno ne indaga le esistenze, sono esseri un po' sospesi tra una vita reale, concreta, e un votarsi a dio e alla preghiera. Eppure le suore amano, soffrono, vivono, muoiono…».
Volevano essere solo suggestioni buttate lì, ma grande fu la sorpresa quando seppi che, prima ancora di proporgli io quel tema, le sensibili antenne del Mauro uomo (anzi: bambino) e del Mauro artista avevano già, da tanto tempo, intercettato l'argomento. Mauro mi raccontò infatti che da piccolissimo, sette otto anni, era affascinato da certe tombe di suore, sepolte tutte insieme in un cimitero dove si recava spesso con sua nonna, che lo teneva per mano. Mi parlò del fascino che esercitavano su di lui i volti in bianco e nero di quegli esseri velati, ritratti sulle lapidi in vecchie fotografie semi scolorite.
Mi disse anche che ricordava esattamente quel luogo, dove si trovava, e a quel punto sapevo che in qualche modo il suo lavoro per la mostra, o almeno uno dei suoi lavori, sarebbe ripartito proprio da lì, da quel cimitero-epifanico, da quelle sensazioni perse in un tempo lontano tutto suo. Sapevo che Mauro avrebbe mescolato alle sue memorie d'infanzia il tema «Suore» e il sottotema, a lui altrettanto congeniale oltreché classico, dell'Imago Mortis, in una rielaborazione artistica che più tardi avrebbe rivelato tratti pop e consapevolmente kitsch (il sacro e il santo, quanto ad apparati, spesso lo sono).
Sono nate così opere extrapittoriche di grande intensità, realizzate da Maugliani con materiali e mezzi eterogenei: una mano magistralmente scolpita in gesso, ad esempio, parte del lavoro sottovetro intitolato Sweet Sweet Crux, opera pensata come ideale prolungamento del grande quadro In God We Trust, olio di due metri per due che la sovrasta nell'allestimento. Qui il pittore ritrae alla sua maniera, ovvero magistralmente, un volto femminile dai lunghi capelli, senza velo, in abito talare prettamente maschile: è una donna ma che vorrebbe essere un uomo? È una suora ma in abito da prete? È una suora-suora di un qualche futuro - chissà dove chissà quando - nell'esercizio di una funzione rituale che oggi le è negata?
Di nuovo il tema ricorrente nell'arte di Maugliani del doppio, dell'identità ambigua che si nasconde oltre quel suo iper-realismo, che proprio perché iper è anche, spesso, sur-realismo, del tipo che dà forma a un qualche informe.
La mano in gesso è da considerare un tutt'uno espressivo con l'enorme tela. Una mano mozza, minuziosamente scolpita fino alla più millimetrica delle venature, una mano priva di patina di salvaguardia, la quale perciò, presto, per precisa volontà dell'autore, subirà in quanto opera d'arte «vivente» microtrasformazioni organiche generatrici di muffe.
Da osservare i dettagli dei diversi lavori di Maugliani: il damasco oro, la croce e il rosario intrecciati alle dita in gesso, vere e proprie microsculture in pasta di zucchero (sweet appunto, dolci per esistenze che forse non lo furono), l'ultravioletto della fotodigitale su plexiglas (elaborazione plastica di volti di anonime suore tratti da sepolture collettive) o il legno bianchissimo-laccato con cui l'artista ha ridipinto un vecchio inginocchiatoio divenuto così parte integrante della sua videoinstallazione The Sixth Hour, sorta di claustrofobico confessionale avvolto nel broccato cardinalizio, in cui il visitatore è obbligato inginocchiarsi se vuole seguire il video proiettato in loop su un Ipad fissato a parete.
Certamente voluto il contrasto tra il monogramma scarlatto «I love JC» (Jesus Christ) impresso sull'inginocchiatoio, che rimanda al merchandising del monogramma I love NY, e il contenuto del video The Sixt Hour, titolo preso a prestito dal soave canto, un rosario della Sesta Ora, che si ascolta in cuffia, un canto a cappella di una suora che Maugliani, per dire della rispondenza della sua sensibilità al tema che gli avevo proposto, aveva registrato mesi prima che la mostra e i suoi contenuti fossero anche solo ipotizzati. Un canto che nel sonoro di un video volutamente tremolante, volutamente sfocato, volutamente in bianco e nero, volutamente giocato su una dialettica luce/buio, si alterna o si sovrappone a reiterati mantra buddisti (sincretismo dunque: ancora qualcosa di doppio, di complesso, di esteticamente ambiguo).
Edoardo Sassi